LA RESPONSABILITA’ DEL MEDICO AI TEMPI DEL CORONAVIRUS, TRA EROICI ONORI E PROFESSIONALI ONERI

Gabriele Maxia

07/04/2020

L’emergenza legata alla pandemia da Covid19 sta mettendo a dura prova i sistemi sanitari di mezzo mondo.

Alcuni dei Paesi toccati dal contagio, inclusa l’Italia, registrano già molte migliaia di vittime, in una situazione di generale difficoltà causata da diversi fattori, tra i quali vanno sicuramente considerati l’ancora scarsa conoscenza scientifica del virus, la non sufficiente diffusione dei test per la diagnosi, la carenza di attrezzature mediche specifiche, dispositivi di protezione individuale e posti di terapia intensiva negli ospedali.

Insomma, una situazione di fatto che stride con un principio sancito della nostra Costituzione, il cui art. 32 impone un’intransigente tutela della salute “come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”.

La Legge 23 dicembre 1978 n. 833, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, attua tale principio costituzionale, stabilendo che ai cittadini deve essere garantita parità di accesso alle cure in rapporto a uguali bisogni di salute, sia fisica che psichica: la tutela della salute dovrebbe quindi assurgere a primario criterio di scelta e programmazione, anche economica, per tutte le istituzioni pubbliche, proprio al fine di garantire l’universalità del servizio ed agevolarne la parità di fruizione.

Non è un caso che le norme emergenziali emanate dal Governo in queste settimane, per fronteggiare e contenere l’espansione del contagio da coronavirus, abbiano posto proprio la salute pubblica al primo posto nella scala dei valori ed interessi da tutelare, sacrificandone altri di pari rango costituzionale, quali la libertà di movimento e d’iniziativa economica.

In tale quadro, non sono mancati dubbi e polemiche sulle responsabilità connesse alla diffusione del virus ed ai molti decessi che ne sono derivati. Soprattutto allorquando si sono verificate ipotesi di mancata o tardiva diagnosi con esiti mortali.

La cronaca riporta numerosi casi d’inchieste, aperte in tal senso presso diversi uffici giudiziari, incluse alcune grossolane  fake news su presunti arresti di medici, fortunatamente mai avvenuti. Personaggi piuttosto noti dell’avvocatura italiana hanno usato parole sprezzanti verso i sanitari , mentre altri – forse di minor fama – hanno diffuso illusorie pubblicità sulla possibilità di risarcimenti, contro le quali gli Ordini forensi stanno procedendo disciplinarmente, avendole ritenute improvvide.

Tutto ciò ha indotto le forze politiche a valutare l’opportunità di introdurre uno “scudo penale” a tutela dei medici e delle strutture sanitarie, sotto forma di emendamento in sede di conversione in legge del c.d. “Decreto Cura Italia” (D.L. 17 marzo 2020 n. 18). L’ipotesi che circola, alla data di redazione del presente articolo, è quella dell’introduzione di un articolo 13/bis, rubricato “Limitazioni alla responsabilità civile, penale e amministrativo-erariale delle strutture sanitarie e degli esercenti le professioni sanitarie”, che di fatto escluderebbe, per il periodo dell’emergenza, la possibilità di configurare in capo ai sanitari qualsiasi tipo di responsabilità colposa, limitandola quindi alle sole condotte dolose.

Ma qual è, nell’ordinamento italiano, il fondamento giuridico della responsabilità sanitaria?

In via generale – e tentando un inquadramento tecnicamente corretto – si può affermare che ricorra una responsabilità sanitaria allorquando sussista un nesso causale tra una lesione alla salute psicofisica del paziente e la condotta tenuta dall’operatore sanitario, in concomitanza o meno con eventuali inefficienze e/o carenze della struttura in cui l’attività dello stesso operatore è stata posta in essere.

Il concetto di responsabilità attiene all’obbligo di rispondere delle conseguenze derivanti da una condotta, commissiva od omissiva che sia, che si rivela posta in essere in violazione di una data regola da seguire nell’espletamento di una certa attività. A tale scopo, l’art. 43 c.p., focalizzando l’attenzione sull’evento che deriva come conseguenza della violazione, chiarisce che se lo stesso “è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione” si tratterà di dolo, mentre se, quand’anche preveduto, tale evento “non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”, si tratterà di colpa.

Limitandosi in questa sede all’ipotesi di responsabilità colposa, che nella materia oggetto di disamina rappresenta statisticamente quella di maggior verificazione, la colpa sarà di tipo generico tutte le volte in cui ricorreranno le tre diverse fattispecie previste dalla norma penale citata (art. 43 c.p.), che tradizionalmente corrispondono anche ad una gradazione della colpa concepita su tre livelli di crescente gravità:

1) negligenza, cioè superficialità, trascuratezza o disattenzione, che grossomodo viene identificata come “colpa lieve”: in generale, essa ricorre quando l’agente assume un contegno che va al di sotto dell’ordinaria diligenza “del buon padre di famiglia” (in campo sanitario, si potrebbe fare l’esempio del medico che prescrive un farmaco al posto di un altro, ovvero non si accorge della mancata rimozione di corpi estranei durante un intervento chirurgico);

2) imprudenza, ossia avventatezza o temerarietà, che a seconda dei casi può configurare un’ipotesi di “colpa media” o “colpa grave” (in ambito sanitario, è ad esempio il caso del medico che decida di eseguire una determinata pratica pur se consapevole di specifici rischi per il paziente);

3) imperizia, vale a dire scarsa preparazione professionale per incapacità proprie, per insufficienti conoscenze tecniche o per inesperienza specifica: in tal caso la colpa sarà certamente “grave” o, nei casi con conseguenze più dannose, “gravissima” (la quale si caratterizza, anche in ambito sanitario, per un’assoluta mancanza di previsione, di comune esperienza, e per un manifesto disinteresse sulle conseguenze delle azioni poste in essere, ai limiti del dolo).

Ricorrerà una colpa più specifica, in ambito sanitario, quando l’evento lesivo per il paziente sarà diretta conseguenza della violazione di norme che il medico non poteva ignorare ed era espressamente tenuto ad osservare, perché contenute in leggi o disposizioni di un’autorità pubblica o gerarchica, disciplinanti specifiche attività o il corretto svolgimento delle procedure sanitarie da applicare nel caso concreto.

Come si è detto, la responsabilità presuppone anche l’esistenza di un nesso causale tra l’errore commesso dal sanitario e il danno subito dal paziente: in altre parole, occorre che il secondo costituisca una diretta conseguenza del primo.

Da questo punto di vista acquista una straordinaria importanza l’indagine sulla natura civilistica della responsabilità medica, lungamente dibattuta in dottrina e giurisprudenza e storicamente riconducibile a tre differenti ipotesi:

– secondo una prima tesi, si tratterebbe di una responsabilità puramente contrattuale, ai sensi dell’art. 1218 c.c., secondo il quale “il debitore” – da indentificarsi in questo caso con l’operatore sanitario – “che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”;

– secondo un’altra tesi, la responsabilità in questione avrebbe invece natura extracontrattuale, trovando riscontro nel principio generale del neminem laedere di cui all’art. 2043 c.c., secondo il quale “qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”;

– secondo un’ultima tesi, che affronta il caso del medico dipendente di una struttura sanitaria, la responsabilità deriverebbe sostanzialmente dal cumulo tra le due precedenti tipologie: infatti, considerato che il medico non ha alcun contratto direttamente stipulato con il paziente – ma, semmai, lo ha con la struttura sanitaria che funge da datore di lavoro, la quale instaura a sua volta il rapporto contrattuale con il paziente – e che il nostro ordinamento non contempla responsabilità diverse da quella contrattuale ed extracontrattuale, si proponeva una sorta di tertium genus non nominato, nascente appunto dal cumulo delle due responsabilità, l’una propriamente in capo alla struttura e l’altra all’esercente la professione medica, con conseguenti possibili incertezze in ordine all’imputazione della stessa.

A fronte di tale molteplicità di vedute, la successiva introduzione giurisprudenziale del principio del c.d. “contatto sociale” ha profondamente inciso sulla qualificazione giuridica della responsabilità del medico, radicandola nell’alveo contrattuale anche per l’ipotesi del medico dipendente di una struttura sanitaria: il riferimento normativo è stato rinvenuto nell’art. 1173 c.c., secondo il quale “le obbligazioni derivano da contratto, da fatto illecito e da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico”.

La responsabilità medica da contatto sociale è stata così identificata come fonte di obbligazione, con la conseguente applicazione della responsabilità contrattuale di cui al sopra citato art. 1218 c.c.: la giurisprudenza era infatti prevalentemente orientata a favore della natura contrattuale di tale responsabilità civile, in quanto considerava la posizione del medico, quand’anche dipendente della struttura sanitaria, uguale a quella di qualsiasi altro soggetto giuridico esercente un’attività professionale.

Su questa scia, il Decreto Legge 13 settembre 2012 n. 158, c.d. “Decreto Balduzzi” (convertito con modificazioni in Legge 8 novembre 2012 n. 189), all’art. 3 comma 1 ha espressamente richiamato la disposizione di cui all’art. 2236 c.c. sulla responsabilità del “prestatore d’opera” (secondo il quale, “se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà”, tale soggetto “non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave”), che rappresenta senza dubbio un’ipotesi di responsabilità contrattuale, per poi prevedere che nei casi in cui tale norma non trovi applicazione, dovendosi procedere ad accertamento della colpa lieve, occorra tenere conto “in particolare dell’osservanza, nel caso concreto, delle linee guida e delle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica nazionale e internazionale”, nell’ottica di quanto previsto dall’art. 1176 c.c. (che prescrive la c.d. “diligenza del buon padre di famiglia” nell’adempimento delle obbligazioni contrattuali).

Un successivo intervento legislativo ha tuttavia completamente capovolto la tesi della natura contrattuale della responsabilità sanitaria, affermato all’opposto una responsabilità sempre extracontrattuale del medico, salvo il caso in cui agisca nell’adempimento di una obbligazione assunta direttamente con il paziente.

La Legge 8 marzo 2017 n. 24, c.d. “Gelli-Bianco”, che attualmente regola questa materia, prevede infatti all’art. 7 comma 3 che l’esercente la professione sanitaria “risponde del proprio operato ai sensi dell’articolo 2043 del codice civile, salvo che abbia agito nell’adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente”. La stessa norma prevede altresì che, in sede di accertamento della responsabilità civile e di quantificazione dell’eventuale risarcimento, il giudice debba valutare il livello di adesione del sanitario alle raccomandazioni previste da specifiche linee guida e buone pratiche clinico-assistenziali.

L’art. 6 della stessa Legge ha introdotto l’art. 590/sexies c.p. che, nell’affermare l’applicabilità delle norme sull’omicidio colposo (art. 589 c.p.) e sulle lesioni personali colpose (art. 590 c.p.) anche per fatti commessi nell’esercizio della professione sanitaria, esclude tuttavia la punibilità “quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto”.

In altre parole, nell’attuale quadro normativo l’operatore sanitario già gode di un vero e proprio “scudo penale” nel caso si uniformi alle linee guida e buone prassi accreditate dalla comunità scientifica. Inoltre, tale condotta conforme attenua e potenzialmente esclude anche la sua responsabilità civilistica, nel caso di esiti negativi dell’attività prestata, senza contare che, essendo ora la responsabilità espressamente qualificata come “aquiliana” ex art. 2043 c.c., egli usufruirà dei connessi vantaggi, dalla prescrizione quinquennale dell’azione, all’onere probatorio a carico del paziente leso.

Cosa succede quando non esistano chiare linee guida e buone prassi cui uniformarsi, come nel caso dell’infezione da coronavirus?

Chiaramente diversa e straordinaria è l’ipotesi in cui l’operatore sanitario non disponga di riferimenti sicuri ai quali uniformare la propria condotta.

E’ il caso, ad esempio, dell’infezione polmonare da nuovo coronavirus: una malattia di cui la comunità scientifica internazionale non ha ancora piena conoscenza, comparsa per la prima volta pochi mesi addietro e con una capacità infettiva obbiettivamente imprevedibile, che ha colto impreparati praticamente tutti i sistemi sanitari del mondo.

Una pandemia, come dichiarata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità lo scorso 30 gennaio 2020, che ha determinato nel nostro ordinamento l’adozione, da parte del Consiglio dei Ministri del 31 gennaio 2020, di una formale dichiarazione di stato d’emergenza nazionale per la durata di sei mesi.

Il campo dell’obbligazione cui è tenuto il sanitario, nell’esecuzione della propria attività, è estremamente vasto e comprende prestazioni di ogni tipo (diagnostiche, preventive, ospedaliere, terapeutiche, chirurgiche, estetiche, assistenziali, etc.), che possono in concreto risultare svolte da medici e personale con diversificate qualificazioni, quali infermieri, assistenti sanitari, tecnici, etc. Esistono, quindi, svariate sfumature ed altrettanti diversi specifici approcci della giurisprudenza alle connesse responsabilità.

Tra queste possibili sfumature, appaiono di chiara rilevanza ed attualità – anche in relazione ai fatti di cronaca cennati all’inizio di questo articolo – ipotesi di omessa o tardiva diagnosi d’infezione da Covid19, con conseguente assenza di trattamento, ovvero di contagio ospedaliero.

La prima ipotesi attiene evidentemente alla responsabilità del personale medico, la seconda riguarda soprattutto ma non esclusivamente la struttura sanitaria: l’infezione nosocomiale può infatti costituire una “complicanza” della terapia, con conseguente responsabilità prevalentemente in capo al terapista, ovvero una conseguenza dell’insalubrità della struttura, dovuta a carenze organizzativo-gestionali, con conseguente addebitabilità ai soggetti apicali della stessa.

Questo articolo vuole focalizzarsi sulla responsabilità dell’operatore sanitario e, pertanto, si limiterà all’esame della prima tra le due fattispecie emerse dalla recente cronaca: vale a dire l’omessa o tardiva diagnosi.

Sebbene vada precisato che la giurisprudenza ad oggi disponibile non abbia ancora avuto modo di affrontare tale specifica fattispecie connessa all’infezione da coronavirus, l’orientamento dominante affermerebbe la responsabilità del personale sanitario anche in caso di mancata prevenzione della malattia.

La Corte di Cassazione, infatti, con la sentenza n. 8461 pronunciata dalla III Sezione civile il 27 marzo 2019, aveva già ritenuto configurabile il nesso causale tra il comportamento omissivo del medico ed il pregiudizio subito dal paziente qualora, attraverso un criterio necessariamente probabilistico, si ritenga che l’opera del medico, se correttamente e prontamente prestata, avrebbe avuto serie ed apprezzabili possibilità di evitare il danno verificatosi: deve essere applicata, in particolare, la regola della c.d. “preponderanza dell’evidenza” (o del “più probabile che non”) al nesso di causalità fra la condotta del medico e tutte le conseguenze dannose che da essa sono scaturite. E’ stato precisato, peraltro, che “anticipare il decesso di una persona già destinata a morire perché afflitta da una patologia costituisce pur sempre una condotta legata da nesso di causalità rispetto all’evento morte e obbliga chi l’ha tenuta al risarcimento del danno“.

Dunque, ragionando inversamente, tale autorevole orientamento consente di affermare che, quando il criterio del “più probabile che non” applicato al caso concreto faccia propendere per il “non”, la responsabilità vada esclusa.

Orbene, è doveroso domandarsi se, soprattutto alla luce dei caratteri di estrema novità ed imprevedibile rapidità di diffusione dell’infezione da Covid19, sia davvero possibile, anche in questo specifico caso, applicare la regola della preponderanza dell’evidenza (o del “più probabile che non”) al nesso di causalità tra l’omessa diagnosi da parte del medico e le eventuali conseguenze per il paziente.

Ciò tenendo naturalmente in considerazione il susseguirsi di eventi, anche drammatici, accaduti nelle ultime settimane ed analizzando, altresì, le condizioni in cui il personale sanitario sta operando, in “stato d’emergenza nazionale” dichiarato dal Governo: le modalità di pronto intervento su una materia completamente sconosciuta, l’assenza di farmaci specifici e protocolli di cura validati, le plurime sperimentazioni in corso, le difficilissime condizioni in cui devono ogni giorno prestare servizio, con un sovraffollamento di nosocomi ed ambulatori, carenza di specifici macchinari, di materiale medico essenziale, degli stessi tamponi e reagenti per la somministrazione del test virologico, spesso persino dei dispositivi di protezione individuale necessari a tutelare gli stessi operatori dal contagio.

Ad avviso di chi scrive, in una situazione di tale portata non dovrebbe essere ascritta alcuna responsabilità al sanitario. Ciò, quantomeno, per due ordini di motivi.

In primis, come sopra ricordato, l’insorgenza recente della malattia non consente di parametrare l’operato del medico a precise linee guida – inesistenti o, quand’anche esistenti, non validate dalla comunità scientifica internazionale, se non limitatamente ad alcune prassi igieniche – sicché difetta un termine di paragone per  l’esatta identificazione di una colpa. In altre parole, non si è ad oggi in grado di avere agganciare ad un parametro oggettivo la qualificazione dell’eventuale colpa del medico, sia in caso di omessa diagnosi che in caso di errore nella terapia. Ciò dovrebbe ragionevolmente indurre l’interprete a limitare l’ascrizione di responsabilità alle sole ipotesi di dolo e, al massimo, di colpa gravissima determinata da errore inescusabile.

In secondo luogo, come anche si è già cennato, nel valutare la responsabilità del singolo medico dovrebbe tenersi conto del generale contesto emergenziale in cui si sono visti costretti ad operare tutti gli operatori sanitari coinvolti nella cura dei pazienti affetti da Covid-19. L’eccezionale virulenza della malattia ha, infatti, determinato un altissimo numero di persone contagiate, per molte delle quali è stato necessario il ricovero in terapia intensiva. Ciò ha comportato, nel giro di un breve lasso di tempo, la completa saturazione dei posti letto all’interno degli ospedali e, pertanto, il diritto alla salute di ciascun paziente ha dovuto essere contemperato con il limitato numero di posti nei reparti. Inoltre, da un punto di vista limitato alla fase della diagnosi, un numero nutrito di medici ha denunciato la carenza di tamponi o di reagenti per la verifica della positività al Covid-19. L’apparente “linea guida” seguita, secondo quanto si è appreso, è stata quindi volta a limitare l’esecuzione del c.d. tampone ai soli pazienti che non presentassero sintomi lievi della patologia. Ciò anche a tacere del fatto che tutto il personale sanitario ha operato sottoposto ad uno stress certamente fuori dell’ordinario, derivante anche dall’essere primariamente esposto al contagio.

Insomma, tutte le circostanze sopra considerate, in uno con la carenza di linee guida e prassi ben consolidate e validate dell’intera comunità scientifica, dovrebbero essere suscettibili di interrompere il nesso di causalità tra la condotta del sanitario e la morte del paziente.

In ogni caso, dato il chiaro carattere emergenziale della situazione creatasi, riconosciuto anche da una formale dichiarazione di “stato d’emergenza nazionale” da parte del Governo, l’elemento psicologico dell’eventuale responsabilità ascritta al sanitario dovrebbe essere circoscritto alla sola ipotesi di dolo.

In conclusione, chi scrive non può che aderire convintamente al biasimo manifestato da molti Ordini forensi in relazione ad illusorie promesse di facili indennizzi, per i danni causati dall’infezione Covid19, che sono circolate per iniziativa di soggetti forse non adeguatamente preparati sulla complessa materia: una disinformazione grave che genera confusione in un momento particolarmente delicato per la vita del Paese.

I cittadini hanno un sacrosanto diritto alla tutela della salute e, quando lesi dall’attività sanitaria loro prestata, hanno certamente diritto al riconoscimento di questa lesione ed al risarcimento del danno: ciò, tuttavia, senza far divenire gli operatori sanitari dei “capri espiatori” di una situazione di generale difficoltà, pericolo e disagio, che molti commentatori stanno paragonando ad una vera e propria guerra.

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