OBBLIGO VACCINALE: ALCUNE RIFLESSIONI

MASSIMILIANO ALBANESE

31/03/2022

 

Nell’era in cui la vaccinazione è divenuta requisito per l’esercizio di molte attività, sorge una lunga serie di dubbi, che sono spesso frutto della non corretta informazione: sciogliere alcuni di essi appare dunque utile.

Con l’adozione del D.L. 127/2021, il Governo ha introdotto l’obbligo di esibizione del c.d. green-pass per l’accesso ai luoghi di lavoro. Successivamente, con il D.L. 1/2022, che ha modificato il precedente D.L. 44/2021, il Governo ha introdotto l’obbligo di vaccinazione per tutti i cittadini (e per gli stranieri residenti in Italia) che abbiano compiuto il cinquantesimo anno d’età, punendo la violazione di tale obbligo con una sanzione pecuniaria di € 100. Al medesimo obbligo erano già soggette una serie di categorie, tra cui gli esercenti le professioni sanitarie e socio-assistenziali, i docenti, il personale della difesa e delle forze di sicurezza e di soccorso pubblico.

Sebbene a datare dal 1° aprile 2022 l’obbligo di green-pass per lavorare verrà meno, a seguito della tanto attesa cessazione dello stato d’emergenza nazionale, è comunque evidente che l’obbligo di vaccinazione ha interessato e continua ad interessare una porzione molto ampia della popolazione italiana.

Ma è legittimo imporre un obbligo di vaccinazione?

L’art. 32 della nostra Costituzione chiarisce, al comma II, che «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge», precisando inoltre, che «la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana».

Posto che il decreto legge governativo può essere inteso quale fonte giuridica di pari livello della legge parlamentare, in quanto convertito nei termini previsti dalla Costituzione, è necessario accertarsi che l’obbligo di vaccinazione non travalichi «i limiti imposti dal rispetto della persona umana».

Sul punto, un utile parametro interpretativo è fornito dall’art. 8 della Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo, che in tema di rispetto della persona umana vieta espressamente l’ingerenza dell’autorità pubblica nella vita privata e familiare delle persone. Tuttavia, la stessa norma ammette tale ingerenza nel caso in cui, attraverso una previsione di legge, si attui una misura necessaria, tra le altre ipotesi, alla sicurezza pubblica ovvero alla protezione della salute, dei diritti e delle libertà altrui.

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con la recente sentenza n. 116/2021 resa nel caso Vavricka contro Repubblica Ceca, ha elencato quali sono le condizioni nelle quali l’ingerenza dell’autorità pubblica è autorizzata dal suddetto art. 8, riferendosi proprio all’ipotesi dell’obbligo vaccinale contro il covid19. Un siffatto obbligo costituisce infatti un’ingerenza particolarmente forte nella vita privata delle persone ma, se la campagna vaccinale è finalizzata a tutelare la collettività dalle gravissime perturbazioni causate dal diffondersi di una malattia, qual è il covid19, per la cura della quale vengono completamente saturate le capacità dei sistemi sanitari, adottare misure efficaci per la riduzione dell’ospedalizzazione appare necessario.

Deve essere tuttavia garantita la possibilità di scelta tra i vaccini disponibili, unicamente tra quelli che siano ritenuti sufficientemente sicuri dalla comunità scientifica internazionale ed approvati dalle competenti autorità sanitarie. Deve inoltre essere previsto un efficace sistema di esenzioni per valide ragioni, quale ad esempio la presenza nel paziente di altre patologie incompatibili con la vaccinazione.

Infine, deve essere sempre assicurato un pronto indennizzo per i danni eventualmente cagionati dalla vaccinazione.

Alle suddette condizioni, secondo la C.E.D.U., l’obbligo vaccinale non viola i diritti umani fondamentali e risulta, quindi, pienamente legittimo.

Nel nostro ordinamento, la Corte Costituzionale si era già espressa ben prima del diffondersi del covid19, riguardo altre vaccinazioni obbligatorie: tra le principali pronunce in materia, le sentenze n. 307/1990, sulla vaccinazione antipoliomielitica, n. 258/1994, sulle vaccinazioni antitetanica e contro l’epatite B, e n. 5/2018, sulla vaccinazione dei minori per l’accesso ai servizi educativi per l’infanzia, sono abbastanza conformi nel ritenere lecita l’imposizione dell’obbligo vaccinale.

Secondo la Consulta, occorre che il trattamento vaccinale sia diretto non solo a migliorare la salute di chi vi è assoggettato ma serva, altresì, a preservare la salute degli altri. E, naturalmente, esso non deve incidere negativamente sulla salute di chi lo riceve, salvo che per conseguenze che sono normalmente previste e ritenute tollerabili nel bilanciamento tra rischi e benefici.

Nell’ipotesi in cui sussistano danni ulteriori, oltre le suddette conseguenze prevedibili, deve essere garantito un efficace sistema legale che consenta un equo indennizzo, facendo inoltre salva la possibilità del risarcimento di tutti i danni.

A differenza del risarcimento, che si fonda sul generale divieto di causare danni ingiusti, per colpa o dolo, e presuppone sia un nesso di causalità tra evento e danno, sia la prova dello stesso danno, l’indennizzo è invece una fattispecie giuridica di maggior garanzia per il cittadino: esso consegue al mero accertamento del fatto e non richiede la puntuale verifica di una colpa nella sua causazione, sicché la protezione che offre è certa e predefinita per legge, senza necessità di un accertamento giudiziale.

A tale riguardo, la Legge 210/1992 stabilisce il diritto ad un indennizzo da parte dello Stato per chiunque riporti lesioni o infermità tali da determinare una menomazione permanente dell’integrità psico-fisica, che siano conseguenza di vaccinazioni obbligatorie.

È chiaro, quindi, che i soggetti obbligati alla vaccinazione contro il covid19 rientrano in tale previsione e sono quindi tutelati nel caso di spiacevoli effetti dannosi. Diverso sarebbe potuto essere, invece, per i soggetti non obbligati, vale a dire tutti i cittadini che non abbiano compiuto i cinquanta anni d’età e che non rientrino in particolari categorie professionali: per costoro, infatti, il vaccino è “fortemente consigliato” ma non obbligatorio.

Sul punto al Corte Costituzione aveva già chiarito, con la recente sentenza n. 118/2020, che ai fini della tutela non sussiste una differenza qualitativamente rilevante tra obbligo e forte raccomandazione: sicché, sulla scorta di tale autorevole giurisprudenza, il Governo ha da ultimo inteso estendere le garanzie a tutti i cittadini e, tramite il D.L. 4/2022, c.d. “decreto sostegni ter”, ha introdotto nella citata Legge 210/1992 l’indennizzo anche per i danni causati da vaccini solo raccomandati.

È stato pertanto stanziato un fondo per gli indennizzi pari a 50 milioni per il 2022 e 100 milioni per il 2023: chiunque ritenga di essere stato danneggiato dall’inoculazione del vaccino, quindi, potrà rivolgersi al Ministero della Salute e, attraverso un accertamento del tutto simile a quello che si svolge per il riconoscimento delle altre invalidità, potrà ottenere, a seconda dei casi, un assegno periodico vitalizio, reversibile, ovvero un assegno “una tantum”.

In tale quadro giuridico, tra legittimità costituzionale e garanzia d’indennizzo, si inserisce un’importante pronuncia del Consiglio di Stato, che con la sentenza n. 7045/2021 offre un’ulteriore prospettiva interpretativa sul tema, chiara e definitiva.

Secondo il massimo organo della giustizia amministrativa italiana, l’obbligo di vaccinazione contro il covid19 non tradisce il primato riconosciuto dalla Costituzione alla tutela dei diritti della persona umana, nonostante sussista il c.d. “ignoto irriducibile”: vale a dire l’insuperabile margine d’incertezza scientifica che rende impossibile, almeno allo stato delle conoscenze, prevedere sul lungo periodo il rapporto tra rischi e benefici dei vaccini.

È infatti incontestabile che, attraverso la campagna di vaccinazione, si sia inteso tutelare l’intera collettività e, in speciale modo, le persone più vulnerabili ed esposte al rischio di contrarre la malattia in forma grave, tale da provocare un intasamento della rete ospedaliera. E già tale semplice constatazione appare idonea a riconoscere, nell’obbligo in discorso, un’attuazione in concreto del principio di solidarietà sociale di cui all’art. 2 della Costituzione, secondo cui è richiesto a tutti «l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale».

Si tratta, in altre parole, di un piccolo sacrificio individuale, che ciascuno è chiamato a compiere per il rispetto e la tutela dei più alti valori della collettività.

Dalla legittimità, così ricostruita, dell’obbligo vaccinale discende, naturalmente, anche la piena legittimità dell’adozione di sistemi volti a controllarne il rispetto, sanzionando i trasgressori. La logica della certificazione verde, il tando discusso green-pass, è infatti quella di conferire un “lasciapassare”, limitando fortemente l’accesso alla vita sociale e lavorativa, per coloro che non presentano idonee garanzie di mitigazione dei rischi sanitari per la collettività.

In quest’ottica, dunque, l’obbligo di esibizione di tale certificazione può essere certamente considerato come un ulteriore strumento di attuazione del principio di solidarietà sociale, che in quanto tale non viola le libertà fondamentali dei cittadini, nella misura in cui tali libertà sono necessariamente condizionate dal rispetto di quelle altrui: inclusa, tra queste ultime, specialmente la libertà di preservare la propria salute, mitigano i rischi connessi al diffondersi del covid19.

Qual è stato, dunque, l’impatto dell’obbligo di green-pass sui luoghi di lavoro?

Con il sopra richiamato D.L. 127/2021, il Governo ha previsto che, fino al termine dello stato di emergenza nazionale legato alla pandemia da covid19 – quindi fino al 31 marzo 2022 -, chiunque abbia dovuto accedere ad un luogo di lavoro per svolgervi, a qualsiasi titolo, un’attività di tipo lavorativo, è stato tenuto a possedere ed esibire il green-pass.

Sono rimasti esclusi dall’obbligo unicamente i lavori che hanno svolto la prestazione in smartworking, sebbene si astato chiarito che il ricorso a tale modalità non doveva costituire uno strumento ovviare all’assenza del green-pass, eludendo la norma.

Chiunque non sia risultato in possesso del certificato verde è stato ritenuto assente ingiustificato e, come tale, può essergli stata sospesa la retribuzione, sebbene siano state espressamente escluse conseguenze disciplinari e sia stata prevista la conservazione del posto di lavoro.

Chi, invece, abbia eluda la norma sia stato sorpreso sul luogo di lavoro senza green-pass, è stato passibile di sanzione pecuniaria, compresa tra € 600 ed € 1.500, nonché delle sanzioni disciplinari previste dal c.c.n.l. di settore: incluso, ove previsto, il licenziamento disciplinare, qualora la violazione sia stata reiterata o comunque ritenuta tale da compromettere il rapporto fiduciario con il datore di lavoro.

I datori di lavoro sono stati tenuti a severi controlli ed hanno quindi dovuto dotarsi di un idoneo sistema di gestione delle relative procedure, sotto pena di sanzioni pecuniarie da € 400 fino ad € 1.000.

In effetti, il datore di lavoro è sempre tenuto ad adottare tutte le misure necessaria a garantire la tutela della salute dei propri lavoratori, come previsto in via generale dall’art. 2087 c.c. e più nello specifico dal testo unico sulla sicurezza contenuto nel D.Lgs 81/2008. A tale fine, in relazione alla diffusione del covid19 è stato stipulato nell’aprile 2020 un apposito protocollo tra parti sociali e Governo, contenente le misure che le aziende devono adottare.

Nel caso siano sussistite in azienda esigenze legate alla programmazione del lavoro, è stato possibile per il datore di lavoro richiedere preventivamente ai lavoratori di comunicare il possesso o meno del green-pass. Inoltre i lavoratori hanno potuto scegliere di consegnare spontaneamente copia cartacea o digitale del certificato al proprio datore di lavoro, al fine di essere esentati da ulteriori controlli per l’intero periodo di validità del certificato stesso.

Il datore di lavoro, quindi, è stato da un lato obbligato a raccogliere e trattare dati sanitari dei propri lavoratori e, dall’altro lato, tenuto a garantirne un’adeguata protezione ai sensi del Regolamento UE 2016/679, meglio noto come GDPR.

Sul punto il Garante per la Protezione dei Dati Personali aveva formulato nel novembre 2021 dei rilievi all’attenzione del Governo, evidenziando la necessità che i “titolari del trattamento”, cioè i datori di lavoro, adottassero delle misure di sicurezza rafforzate, sia di tipo tecnico (quindi legate agli strumenti utilizzati) che, specialmente, di tipo organizzativo: coloro che hanno ricevuto la consegna del green-pass hanno dovuto infatti essere inquadrati come “designati al trattamento” e conseguentemente responsabilizzati.

I lavoratori dovevano inoltre essere adeguatamente informati circa il trattamento dei dati sanitari contenuti nelle certificazioni verdi, sebbene non dovevano poi esprimere uno specifico consenso, posto che la base giuridica del trattamento era l’adempimento di un obbligo di legge.

È chiaro, quindi, che l’aspetto più complesso della vicenda è stato rappresentato proprio dall’esigenza di organizzare la raccolta e conservazione delle copie dei green-pass, mentre meno problematica è risultata la procedura di verifica della validità dei certificati.

Infatti, i controlli delle certificazioni verdi si effettuano per tramite dell’apposita applicazione per smartphone, denominata “Verifica C19” e distribuita dal Ministero della Salute, la cui sicurezza in relazione al trattamento dei dati è assolutamente garantita: attraverso la lettura del qr-code presente sul certificato viene visualizzato un esito di colore verde o rosso, associato rispettivamente alla validità o meno del green-pass esibito. Vengono altresì forniti nome, cognome e data di nascita del soggetto, al fine di riscontrarne l’identità per mezzo di un documento identificativo, ma nessun dato viene in alcun modo memorizzato sul dispositivo locale.

L’impatto dell’obbligo di green-pass sui luoghi di lavoro è stato quindi notevole, avendo reso necessario un intervento sulla c.d. “compliance” aziendale, al fine di adottare apposite procedure in linea con le disposizioni vigenti, tenendo conto delle nuove responsabilità, anche solo indirette, sorte in capo ai datori di lavoro. Un intervento che potrebbe perfezionarsi anche ex post, con le dovute accortezze, laddove necessario a sanare criticità tutt’ora esistenti rispetto a quanto accaduto in azienda, magari a seguito di una non corretta gestione delle procedure durante la vigenza dell’obbligo di esibizione del green-pass sui luoghi di lavoro.

Da questo punto di vista, dunque, è sempre stato e rimane consigliabile il ricorso all’assistenza di consulenti legali e gestionali qualificati, onde ridurre il rischio di commettere errori in una materia così delicata e fortemente specialistica.

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